Sono nata nel 1953 in un piccolo paese del meridione, dove il mare si mescola con il cielo a tal punto da non riuscire a distinguere ne l’uno ne l’altro.
Settima di otto figli, coccolata e accudita dai fratelli maggiori.
In casa vi era semplicità, collaborazione e altruismo.
Tutto ciò che avevamo in famiglia veniva diviso in parti uguali, la parola “ancora” non era mai menzionata.
Il tempo tra noi bambini scorreva con giochi di scatole in cartone e gare nel lanciare sassolini.
Nelle festività non davamo importanza a ciò che si riceveva ma alla gioia che vi era nel trascorrerla tutti insieme.
Ricordo l’attesa di quei giorni con emozione e impazienza, la Befana sotto il cuscino lasciava qualche mandarino, due/tre caramelle e qualche scorza d’arancia candita con lo zucchero.
Babbo natale invece donava taralli dolci e glassati.
Non vi erano eccessivi beni materiali e il termine spreco non era nel nostro vocabolario.
I capi di vestiario venivano conservati con cura per essere tramandati tra fratelli ed essendo l’ultima figlia il mio corredo era un’eccezione alla regola.
La domenica era la festa più attesa poiché si indossava il capo più bello per andare a far visita ai parenti.
Il mio vestito preferito era di colore verde smeraldo il quale indossavo con scarpette bianche e dinnanzi al grande specchio in legno intarsiato di rose, ballavo perdendomi in sogni e desideri.
Ancora mi vedo…
…Senza canoni
Pura e vivace.
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Santina: Ama i tuoi genitori fino allo spasmo dell'irrazionalità, oltre tutti i perimetri delle sensazioni e tutte le frontiere del pensiero.
Il paese e la sua aspra vita non prometteva grandi possibilità di crescita cosi i miei genitori decisero di lasciare indietro ogni affetto per trasferirci a Roma.
Ricordo la partenza come un gioco, dove io data la tenera età, ero l unica nel non conoscere le regole. Era così forte il desiderio di partire e ricominciare che lasciammo molte cose al caso salutando pochissime persone.
Con i propri genitori a quei tempi vi era un rapporto basato unicamente sul rispetto ed ubbidienza per cui non feci domande.
Durante il viaggio guardando fuori dal finestrino mi illudevo con la fantasia di aver trovato chissà cosa all’arrivo ed ero pronta a voler indossare il mio ben conservato nel tempo vestito verde.
Smisi di sognare quando giungemmo ad Ostia, esattamente sul lungomare Paolo Toscanelli.
Non vi era nessuna festa ad attendermi ma bensì un collegio vista mare.
Era la casa più grande che i miei occhi avessero mai visto, rimasi incerta ma al tempo stesso affascinata.
Non sapevo quanto vi sarei rimasta in quella grande casa a più stanze.
Mia mamma mi diede un grande libro delle favole prima di entrare “la bella addormentata nel bosco” il quale accompagnò i miei sogni per i successivi sei lunghi anni. Mi disse che sarebbe tornata presto, la riabbracciai dopo due lunghe settimane.
Immagini sfocate e nitide si alternano a quel periodo.
I genitori venivano a farci visita due volte al mese, accompagnati da piccoli doni divisi poi tra i meno fortunati.
Ricordo il piccolo pacco regalo confezionato dal sottile filo di canapa dove all’interno trovavo biscotti e giornalini di topolino.
Una rete divideva i nostri abbracci nel periodo invernale, ma le mie piccole mani riuscivano sempre ad oltrepassarla.
Durante il periodo estivo, nelle visite ci permettevano di stare sulla spiaggia, un sottopassaggio ci conduceva dai nostri genitori e lì gli abbracci non avevano mai fine.
All’età di sei anni nei giorni di visita iniziai a non vedere più mio padre e a dubitare del suo affetto nei miei confronti.
Rimasi per altri lunghi sei anni con domande, dubbi e rancore.
Una domenica mia madre con emozione mi disse”…
Guarda chi c’è?…
La folla ostruiva la chiara vista ma riuscii a scorgere i suoi occhi blu.
Lo abbracciai forte quasi come se volessi colmare quel vuoto che mi aveva accompagnato per tanto tempo.
Avevo riversato in lui la responsabilità di quell’assenza, domande irrisolte e sensi di colpa nel tempo mi avevano nutrita.
Nelle visite che susseguivano anche se accanto lo percepivo distante, avevo metabolizzato in parte quel dolore ma inconsciamente lo rifiutavo.
Continuai ad amarlo come una bambina ama suo padre con l’unica differenza che la rabbia aveva cancellato parte della mia purezza e qualcosa in me era cambiato.
Con gli anni, divenuta ormai donna chiesi a mia madre spiegazioni sul perché di quell’assenza così lunga. Mi disse che papà si era ammalato di tubercolosi dopo la guerra e i dottori lo avevano messo in isolamento poiché infetto.
I sensi di colpa per averlo odiato in quegli anni mi dilaniavano, ma ormai si era creata una voragine troppo colma di rancore per rimediare.

Se solo mi avessero dato delle spiegazioni, se ci fosse stato dialogo in famiglia, non avrei vissuto con quella spina nel cuore.
Mi ripromisi che con i miei figli e i nipoti sarebbe stato diverso nel bene e nel male.
Il dolore per quanto noi non lo vogliamo, modifica e in parte arrestata.